«Una cosa che mi ha colpito, in questi giorni di emergenza e di dolore, è stato vedere come le persone hanno iniziato ad aiutarsi a vicenda, anche se appartenenti a comunità diverse. Anche se alcuni sono cristiani e altri musulmani.»
Così Fadi Bejani, coordinatore dei nostri progetti in Libano, risponde alla domanda "Hai incontrato qualche segno di speranza, in questi giorni bui?"; ciò che più l’ha colpito è stato vedere come, nella disperazione, differenze culturali e religiose che hanno per anni squarciato il suo Paese si siano affievolite, dando vita a un circolo virtuoso di vicinanza e solidarietà.
È un elemento interessante su cui riflettere, soprattutto nel caso del Libano: paese intrinsecamente complesso dal punto di vista religioso e sociale, melting pot di numerosi gruppi religiosi nel quale la comunità cristiana e quella musulmana non hanno sempre trovato una convivenza pacifica.
Tensioni che vengono da lontano
Il fragile equilibrio del Libano è stato spezzato ripetutamente da conflitti interni e tragici episodi di violenza, fondamentali da tenere presenti per comprendere le tensioni attuali. La guerra civile che ha devastato il Paese dal 1975 al 1990 continua ancora oggi a influenzare le relazioni tra le diverse comunità, e le tensioni che affiorano oggi in Libano provengono spesso da simili traumi storici non risolti. In particolare, alcune persone appartenenti alla comunità cristiana percepiscono i profughi musulmani rifugiati in Libano – in larga parte siriani e palestinesi – come una minaccia alla loro identità e sicurezza; ciò causa discriminazione e, talvolta, episodi di violenza.
Ma non tutto il panorama delle relazioni tra cristiani e musulmani in Libano è caratterizzato solo da tensioni: negli ultimi anni noi di Pro Terra Sancta abbiamo cercato di promuovere progetti che coinvolgessero sia persone della comunità cristiana che appartenenti a quella musulmana, promuovendo la solidarietà e la collaborazione su temi comuni come l'educazione, l'assistenza alle famiglie bisognose e la tutela del patrimonio culturale comune.
Lavorare per sopravvivere insieme
Anche oggi, durante l’emergenza, una delle priorità rimane favorire l’integrazione sociale per permettere agli aiuti di essere più numerosi e più efficaci. In un momento in cui bisogna agire per permettere a mezzo milione di sfollati di avere accesso ai beni di prima necessità, non si può permettere che antiche tensioni settarie prendano il sopravvento.
In questo momento in Libano le richieste di aiuto sono in costante aumento: ondate di persone continuano ad emigrare dal sud verso Beirut, e le risorse da mettere a disposizione dei centri di accoglienza iniziano a scarseggiare, così come gli spazi. «È essenziale, ricordare che abbiamo a che fare con persone che hanno perso tutto e vivono in condizioni estremamente difficili,» spiega Fadi. «In una stanza di 25 metri quadrati convivono fino a 20 persone, la tensione è inevitabile; soprattutto se pensiamo che si tratta di persone che hanno perso la casa, la famiglia, ogni cosa, e non sanno cosa sarà di loro».
La situazione pone il grande problema del supporto psicologico: la necessità, infatti, non è solo di coprire i bisogni materiali degli sfollati – e di farlo nel lungo periodo, avendo quindi accesso a una quantità di risorse che, ad oggi, sembra impossibile da poter mettere da parte – ma anche di accompagnare le persone, in particolar modo i bambini, nella comprensione e nell’elaborazione di un terribile trauma che stanno subendo senza poter far nulla.
L’importanza del sostegno psicologico
A questo scopo Pro Terra Sancta ha dato inizio a una serie di attività di supporto psicologico, indirizzate soprattutto ai bambini: «Molti bambini hanno perso familiari, vicini, amici; ci sono tantissime famiglie che non sanno dove si trovino alcuni dei loro familiari, ne hanno perso le tracce. Molti bambini hanno visto i missili, hanno guardato il pericolo con i propri occhi e lo vedono ancora», spiega Tatiana Moubarak, psicologa del Franciscan Care Center oggi impegnata nell’assistenza psicologica alle famiglie e ai bambini rifugiati.
Il trauma vissuto dalle vittime dell’emergenza degli ultimi giorni è evidente, e a maggior ragione a soffrirne sono i bambini, meno difesi contro gli orrori della guerra. Uno di loro, per esempio, ha raccontato così ciò che ha vissuto: «Ogni giorno sentivo i missili cadere e vedevo il fumo nero. All’inizio ero terrorizzato. Mi ricordo bene la prima volta che ho sentito un missile cadere... Era lontano, ma riuscivo comunque a vedere il fumo. Il fumo non si vede sempre, ma il rumore, quello lo sentiamo in continuazione».
«Quello che facciamo, qui, è lavorare sulle loro emozioni: li aiutiamo a esprimerle, per cercare di far fronte a una situazione estremamente difficile,», spiega Tatiana. «I bambini sono arrabbiati, frustrati, vogliono tornare a casa anche se molti non ce l’hanno più. Noi cerchiamo di aiutarli il più possibile: li ascoltiamo, forniamo loro aiuto, consigli, suggerimenti di strategie per adattarsi e cercare di stare meglio».
Grazie a sessioni di ascolto, lezioni scolastiche e attività di disegno e di gioco collettivo stiamo cercando di far crescere questi bambini in un ambiente che, anche sotto le bombe, all’interno di una scuola adibita a centro di accoglienza, possa avvicinarsi il più possibile a un contesto sano e felice.
In questo, cristiani e musulmani sono uniti: «I nostri centri si trovano in aree a prevalenza cristiana, e i rifugiati sono quasi tutti musulmani», racconta Fadi, «e tutti i cristiani li stanno aiutando. Per me questo è davvero importante: è una speranza per il futuro del Paese. Certo, non è così ovunque, ci sono anche dei rifugi che accolgono solo cristiani, ma è una minoranza: in generale si respira una solidarietà interreligiosa, ed è qualcosa di fondamentale per costruire un paese che possa, in futuro, aspirare alla pace.»