“Qualche giorno fa, in un checkpoint, un soldato mi ha detto: «Rispondi a questa domanda in modo corretto e ti faccio passare»”. Si ferma per un attimo Iyad, il collega che ci accompagna verso Sebastia, e il suo sguardo di fiero beduino si perde nelle dune del deserto di Giuda.
I suoi occhi osservano come le dune si trasformino lentamente in colline in fiore, passando dai wadi di roccia macchiati di erbetta sottile ai prati verdi, e quindi ai campi sterminati di ulivi, l’oro della Palestina. Siamo sulla strada che da Gerico sale in Samaria, passando per la valle del Giordano.
“Mi ha chiesto – continua – «Cosa desideri di più in questo momento?», e io senza pensarci ho risposto: la pace”.
La risposta alla domanda volutamente provocatoria ha spiazzato il soldato che lo ha lasciato passare e colpisce anche noi, perché è vera. Il collega avrebbe potuto lanciarsi in argomentazioni e recriminazioni, avrebbe potuto – e forse, secondo molti, avrebbe dovuto – puntare il dito contro i responsabili e far valere le sue ragioni; ha preferito rispondere con la sincerità del cuore, con il realismo di chi da mesi vive nell’incertezza e nella paura. Prima la pace, il resto viene di conseguenza.
Eppure avrebbe tutto il diritto di farlo, Iyad, nato in un campo profughi in Giordania da due genitori palestinesi: la madre nata e cresciuta in Palestina, il padre costretto a lasciare la sua terra durante la guerra dei sei giorni, nel 1967. Per anni Iyad è cresciuto nel campo senza conoscere una parte importante della sua famiglia e solo a 14 anni ha potuto tornare a vivere a Gerico, vicino al luogo dove si trovava il villaggio del nonno.
La sua vita non è mai stata semplice, ma da qualche mese a questa parte è peggiorata parecchio: ci racconta che a gennaio suo padre è stato ferito al braccio da un proiettile mentre giocava con il nipotino in giardino, e che pochi giorni fa la casa del fratello è stata demolita dalle ruspe solo perché da un giorno all’altro qualcuno ha deciso che i confini di Gerico andavano spostati. “Solo – dice – per farci paura”. E’ fiero di tutto ciò che fa parte della sua storia, di quella personale e di quella della sua terra, e del patrimonio storico di quella terra, un tesoro che parla di una storia comune. “E’ di tutti, – conclude, – non di possesso esclusivo di qualcuno”.
L'arrivo a Sebastia
Dopo un’ora circa arriviamo finalmente a Sebastia, l’antica Samaria, capitale del regno del nord. Città fiorente di re e profeti, fu resa ancora più bella da Erode il Grande che ne cambiò il nome in Sebastia in onore dell’imperatore romano, il Sebastòs. Qui fu sepolto il corpo del Battista e i crociati ne fecero una roccaforte potente.
Oggi è una piccola cittadina di 4000 abitanti, un’isola come tante in Cisgiordania, circondata e stretta dagli insediamenti dei coloni sulle colline intorno che si espandono sempre di più in una morsa soffocante. Era una meta importante per i pellegrini, che accorrevano in gran numero per vedere e toccare l’unico luogo dove si ricorda la sepoltura di Giovanni Battista insieme ad Eliseo e gli altri grandi profeti, ma col tempo il degenerare della situazione ha cancellato per sempre Sebastia dalle cartine.
Prima del 7 ottobre i turisti arrivavano a singhiozzi, adesso non viene più nessuno. Non vengono più nemmeno gli arabi di Galilea che si recavano qui per passeggiare tra le verdi colline della Samaria e assaporare cibi di tradizione antica. Non vengono perché temono gli agguati dei coloni sulle strade, sempre più frequenti e sempre più violenti.
Quando arriviamo veniamo aggiornati sulla situazione locale: anche qui sono numerosi i racconti di episodi di violenza, le storie di amici freddati per la strada mentre tornavano dai campi, colpiti da proiettili arrivati da chissà dove; “Anche mio cugino – ci racconta un ragazzo – è stato ferito mentre si trovava in piazza con amici”. Una violenza insensata che opprime tutti. Eppure, accanto alla tristezza, agli occhi lucidi per l’ingiustizia e ai lunghi silenzi tra un racconto e l’altro mentre la testa si riempie di “perché?”, non ci sono recriminazioni, non c'è nessuna violenza nelle loro parole.
Scintille di speranza
E non solo: c’è la speranza di chi non vuole arrendersi e vuole continuare a lottare per il futuro. Con gesti semplici, quotidiani, ma pieni di una forza incredibile. “Dovreste vedere – ci spiega Shady – come si illuminano gli occhi dei bambini tutte le volte che partecipano al torneo di calcetto!”. Shady è da anni un collega e un amico che gestisce la guesthouse di Sebastia costruita grazie alla collaborazione tra Pro Terra Sancta e Mosaic Center Jericho. Qualche mese fa, data l’assenza di turisti e la guesthouse vuota, nel pieno della violenza, Shady ha deciso di organizzare un torneo di calcetto a Sebastia, coinvolgendo tantissimi bambini e ragazzi della città.
“Mi è tornata in mente – ci spiega – una frase di Osama Hamdan che, siccome sono laureato in educazione fisica, spesso mi diceva «Shady, dovresti creare una squadra di calcio per far tornare il sorriso a questi bambini». Così ho fatto: prima ho creato una squadra di piccolissimi, poi, dato che l’iniziativa era piaciuta tantissimo e arrivavano centinaia di richieste di iscrizione, ho pensato di organizzare questo torneo coinvolgendo più squadre”.
Il torneo è dedicato proprio alla memoria di Osama, nostro caro amico e fondatore del Mosaic Center di Gerico, venuto a mancare di recente a causa di un tumore. La sua memoria permea la vita di Shady, di Iyad e di tutti questi luoghi che vediamo. Da lui tutti noi abbiamo imparato tanto, soprattutto l’amore e la cura per il nostro patrimonio e per la nostra terra. “La speranza – ci spiegano i ragazzi di Sebastia – nasce da questa coscienza di noi stessi, che ci permette di continuare a lottare per la vita anche in mezzo a questo disastro, anche quando è difficile”. Per questo Pro Terra Sancta ha scelto sin da subito di sostenere l’iniziativa.
Oltre a dedicarsi con tutto il cuore all’allenamento delle squadre e all’organizzazione del torneo, Shady sta sistemando le camere della guesthouse. “Piccoli interventi di manutenzione – ci spiega mentre ci accompagna in visita – così quando torneranno i turisti saranno già pronte!”
Il suo entusiasmo è disarmante.
Per pranzo saliamo a Nisf Jubeil, un paesino situato poco più in su sul fianco della collina. Anche qui il Mosaic Center e Pro Terra Sancta hanno avviato attività per creare opportunità di turismo sostenibile; anche qui c’è una guesthouse pulitissima. Questo dettaglio ci colpisce: “La tengo in ordine – spiega Rami, che la gestisce – perché ho la speranza che un giorno torneranno gli amici. Questo posto mi ha già dato tanto e lo curo come se fosse la mia casa”.
Prima di tornare a Sebastia da Shady visitiamo il centro di produzione delle ceramiche, dove le artigiane continuano a lavorare e a creare magnifici piatti, ciotole e tazzine. Qualcuno a cui venderle si trova, in attesa di tempi migliori, quando le persone torneranno qui.
I ragazzi del calcetto
L’allenamento si tiene in una scuola: “Prima giocavamo – ci spiega Shady – in un campetto pubblico, ma con l’aumentare delle violenze abbiamo preferito spostarci in un luogo chiuso dove i bambini sono al sicuro”. E’ uno spettacolo: di per sé non c’è niente di eccezionale, un allenamento come tanti che si svolge su un campetto di asfalto tra due porte di metallo arrugginite, eppure per questi bambini è qualcosa di incredibile. Si impegnano moltissimo e sfrecciano tra i birilli fierissimi, sfoggiando le loro maglie nuove con i loghi di Pro Terra Sancta e del Mosaic Center come se fossero i loghi della Juve o del Milan. Tutti qui prendono tutto molto sul serio, nessuno è svogliato o annoiato.
Sugli spalti una folla di curiosi fa il tifo per la squadra di Sebastia, tutti bambini e ragazzi che non si perdono un secondo di gioco. Con noi molti di loro all’inizio non sanno come comportarsi: “Alcuni di loro – ci spiegano – non hanno mai incontrato uno straniero, perché siamo un po' isolati”. Per la partita scendiamo in campo anche noi, è un momento davvero importante. Poi si fa tardi e dobbiamo ripartire, la strada è incerta e dobbiamo rientrare a Gerusalemme.
La partita è finita, ma Shady, Rami e alcuni dei bambini rimangono nel campetto ancora un po'. Mentre li lasciamo alle nostre spalle abbiamo la sensazione di lasciare un luogo speciale, un’isola di speranza e gioia sul cocuzzolo della collina, circondata da un mare di violenza e di caos. A pochi chilometri da qui ci sono Nablus e Jenin dove ogni giorno la violenza chiama altra violenza, in uno scontro di sangue senza fine. Ma qui oggi abbiamo visto una fiammella di speranza che svetta sulla collina dell’antica città di Samaria, chiamata nei secoli “la sentinella”. Oggi la sentinella sono loro, i ragazzi del calcetto di Sebastia.