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Nuovi sguardi sul Libano

02 Agosto 2024
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Nuovi sguardi sul Libano
Nuovi sguardi sul Libano

Due settimane trascorse in un Libano fatto di crisi e povertà, l’aereo di ritorno partito poche ore prima che un missile si abbattesse sul Golan, pochi giorni prima che a Beirut esplodesse un edificio.

Pietro, Alberto e Giovanni hanno conosciuto un Paese in ginocchio, dove però lo spettro della guerra non sembrava, in apparenza, pervadere ogni cosa. Hanno conosciuto i nostri progetti assistenziali scoprendo la forza della speranza e della resistenza, anche dove le condizioni di vita sembrano insostenibili.

Pietro racconta un Paese che «mai avrebbe detto in guerra», prima del 27 luglio. Questa apparente serenità della popolazione libanese di fronte al concreto – oggi, purtroppo, più che mai – pericolo di un conflitto aperto ci appare forse incomprensibile; ma dobbiamo riflettere su come gli occhi con cui noi, da qui, osserviamo lo sviluppo del conflitto, vedano nitidamente il susseguirsi degli eventi e le loro implicazioni politiche, ma siano inevitabilmente miopi di fronte a quella che è la percezione quotidiana di chi l’emergenza la vive ogni giorno. Nell’allerta costante nulla è più efficace che, semplicemente, continuare a vivere: come dice anche Fadi Bejani, responsabile dei nostri progetti in Libano, «Non possiamo fermarci. Non lasceremo che tutta questa situazione ci costringa a smettere di vivere o di sperare».

È con lo stupore di aver conosciuto questo nuovo sguardo che i ragazzi ci raccontano oggi il “loro” Libano: condividiamo le loro riflessioni nella speranza che l’escalation si fermi, e con l’impegno da parte nostra a continuare, grazie ai nostri progetti in loco, ad aiutare il più possibile.

Il Libano di Pietro: un Paese che resiste ad ogni semplificazione

In queste due settimane in Libano, tra Tripoli e Beirut, non ho solo visto le maggiori attrazioni turistiche, da Byblos alla città vecchia di Tripoli ai musei di Beirut, ma ho anche osservato le condizioni di vita e la povertà che affligge il paese a partire dal 2019. La crisi economica ha infatti distrutto il paese, provocando il collasso dello Stato e, quindi, dei diversi servizi pubblici.

Ciò è visibile dallo stato delle strade e dalla giungla di cavi elettrici che dai generatori privati portano l'elettricità nelle case, dal momento che il servizio pubblico funziona solo per due ore al giorno. Beirut, centro economico e turistico del paese, è deserta: i libanesi all'estero, che in estate solitamente rientravano nel Paese, quest'anno erano assenti, così i grattacieli sul lungomare erano senza luci: i piani illuminati si contavano sulle dita. Alla crisi economica, infatti, si è aggiunta la minaccia della guerra.

Questa però era più che mai impalpabile. Prima dell'attacco di Hezbollah del 27 luglio nessuno di quanti abbia incontrato ha mostrato serie preoccupazioni per un possibile scontro. Questo sì, mi ha stupito: il giorno dopo che ho lasciato il Paese un missile israeliano ha colpito i quartieri sciiti di Beirut, ma mai avrei detto, nelle due settimane in cui sono stato in Libano, che quel Paese fosse in guerra.

Detto questo, altri problemi e attriti mi sono parsi evidenti: prima di tutto quelli economici, la facilità con cui si passa dalle case abbandonate dopo l'esplosione del porto ai palazzi le cui finestre si sono state prontamente rinnovate, dai grandi SUV d'ultimo modello alle utilitarie di trent'anni fa. In secondo luogo, v'è il grande problema confessionale, la convivenza nel medesimo territorio, di diverse religioni: cristiani, musulmani sunniti e sciiti e infine drusi, tutti armati con le loro milizie. A ciò s'aggiungono infine le pressioni esterne: Israele ed Iran in primis, gli Stati Uniti e i Sauditi, ma anche attori che il pubblico occidentale spesso dimentica, come l'Iraq o i rifugiati siriani.

Questo elenco confusionario di suggestioni riflette quello che ho percepito del Libano: una complessità senza precedenti, fatta di diversi livelli senza che nessuno di questi prevalga sugli altri, un Paese che resiste ad ogni semplificazione e che necessita, forse in tempi più pacifici, di una visita. Ma, infine, un popolo che, nonostante le sue divisioni, è strettamente legato alla sua terra, al Libano, e che rifiuta di emigrare perché, nonostante tutto, ha speranza e ama i suoi concittadini. È con questo, speranza e amore, che voglio infine ricordare la squadra affiatatissima che a Beirut lavora per Pro Terra Sancta, tra distribuzioni, sostegno psicologico e consulenze imprenditoriali.

Pietro Marchesani

Pietro in Libano con i bambini del Terra Santa Summer Camp.
Pietro con i bambini del Terra Santa Summer Camp.

Il Libano di Alberto: cosa significa essere libanesi?

Cosa significa essere libanesi?

È una domanda a cui le stesse persone che vivono nel Paese dei Cedri faticano a rispondere; ci sono le montagne e il mare che li separano da chi hanno attorno ma internamente appaiono in dubbio quando provano a dire cosa tiene unita la nazione e coloro che la abitano: musulmani, sunniti e sciiti, e cristiani maroniti, tre categorie che rappresentano solo in minima parte quel mosaico che da poco più di cent’anni compone la società libanese.

Mentre cresce il numero dei profughi palestinesi e siriani all’interno del Paese la povertà aumenta, scompare la classe media, si incrementa l’inflazione e nel Sud si combatte, il Paese si presenta acefalo, sprovvisto di un governo in grado di guidare il proprio popolo verso una rinascita.

In un tale scenario realtà come la Custodia di Terra Santa e l’Associazione Pro Terra Sancta appaiono fondamentali: loro, infatti, sostengono chi ha bisogno – ripenso alla mattina trascorsa nei quartieri popolari di Beirut dove abbiamo conosciuto due delle famiglie che Pro Terra Sancta aiuta regolarmente: persone malate che non hanno nulla ma ringraziano continuamente l’Associazione e Dio per tutto quello che ricevono.

Allo stesso modo, l’impegno di tali opere favorisce la nascita e lo sviluppo di luoghi di pace e incontro, essenziali per sanare le ferite di una società prostrata dalle tante prove e composta da “parti” che spesso non sanno comunicare tra loro; mi viene in mente il campus estivo gestito dal Convento francescano di Tripoli dove per un mese una ventina di ragazzi, cristiani e musulmani, hanno trascorso le giornate giocando e stando insieme. Uno stesso bisogno ha fatto sì che famiglie di diversa cultura e religione decidessero di mandare i propri figli nello stesso luogo: il risultato è stato non solo quello di incontrare i frati, ma anche di conoscersi tra loro.

Come raccontava padre Quirico, superiore del convento di Tripoli, «la scoperta dell’altro è qualcosa che crea solidarietà; è da qui che nasce la fiducia. La gente che viene al Convento ha fiducia in noi perché aiutiamo senza fare differenze o escludere qualcuno; in questo modo anche chi usufruisce dei nostri servizi pian piano inizia a fidarsi, non solo di noi ma di chiunque incontra».

Solo così è possibile conoscersi e imparare a vivere insieme; questa appare la strada per riscoprire cosa significhi essere un unico popolo.

Alberto Perrucchini

Alberto in Libano insieme a padre Quirico
Alberto insieme a padre Quirico

Giovanni: racconto per immagini

Giovanni Dinatolo

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