A seguito dell’attacco aereo che sabato 27 luglio ha colpito un campo da calcio a Majdal Shams, cittadina sulle alture del Golan, uccidendo dodici bambini, la paura di una vertiginosa degenerazione dello scontro tra Libano e Israele si radica sempre di più.
«La giornata di sabato ha sicuramente segnato l’inizio di un’escalation più profonda rispetto a prima» commenta Fadi Bejani, nostro collega che vive a Tripoli e coordina i progetti locali. «Il sud del Paese rimane il bersaglio principale, ma nel frattempo diversi avvertimenti da Israele minacciano un bombardamento contro Beirut».
Ieri queste minacce si sono avverate: un raid israeliano ha colpito la periferia sud della capitale, distruggendo un palazzo di otto piani e danneggiando il vicino ospedale.
L’attacco si abbatte su un Libano ormai stanco, devastato da una crisi profonda e da mesi in bilico tra un equilibrio difficile e una guerra che si profila ogni giorno all’orizzonte. La continua allerta e il costante spettro di uno stato di emergenza hanno tanto messo alla prova la forza d’animo dei cittadini libanesi da alterare la fisionomia di ciò che percepiscono come normalità, logorandola poco a poco.
«Il problema», spiega Fadi, «è che non riusciamo più a percepire la realtà del pericolo, a distinguere un falso allarme da una minaccia concreta. Sono dieci mesi che viviamo questa stessa situazione. È come se fossimo assuefatti dallo stato di allarme: ogni mese ci sono due o tre giorni nei quali riceviamo qualche minaccia, e allora le ambasciate annunciano le stesse cose, l’aeroporto cancella qualche volo, dopodiché si ricomincia».
«La percezione generale non è quella di un Paese pietrificato dalla paura: certo, nulla è stabile, e sentiamo in noi la consapevolezza che potremmo essere vittime di un bombardamento in qualsiasi momento; ma qui cerchiamo di andare avanti con la nostra vita, di non smettere di vivere per paura di morire».
Questa mattina, però, la preoccupazione si fa sentire anche sotto le difese dell’abitudine: «La maggior parte di noi non ha dormito stanotte, perché aspettavamo una risposta di Hezbollah. Non è successo nulla; forse ci sarà stasera, o forse domani. Nessuno lo sa».
Una delle preoccupazioni che sorge all’indomani dell’attacco è la paura di un nuovo e più profondo isolamento del Paese, e il conseguente peggioramento della crisi economica e sociale: «Dopo lo schianto del missile siamo rimasti automaticamente senza carburante. Per paura che la gente, entrata in panico, assaltasse le stazioni di servizio per cercare di fare il pieno, tutti i distributori della città si sono affrettati a chiudere i battenti e a bloccare le vendite».
«Molto probabilmente avremo un aumento del prezzo del carburante, e delle medicine, e degli altri beni. Penso che sarà questo il problema principale: l’aspetto economico e sociale, la nostra quotidianità». Fadi non è solo preoccupato per lo scoppio di una guerra aperta, lo è soprattutto per le possibili immediate conseguenze che ricadranno inevitabilmente sulla popolazione civile: «Ci sarà una carenza di beni, anche di quelli di prima necessità come i medicinali, e se i prezzi aumenteranno ulteriormente sarà il colpo di grazia per l’economia libanese».
Per questo è importante non arrendersi, ma continuare a fare il possibile per aiutare la gente: «Non possiamo fermarci. Non lasceremo che tutta questa situazione ci costringa a smettere di vivere o di sperare. Continuiamo a portare avanti le attività di supporto e assistenza: in questi giorni sarò occupato con la distribuzione di farmaci e kit di primo soccorso presso il dispensario medico di Tripoli e quello di Tiro».
Il supporto sul campo avrà un ruolo fondamentale nell’affrontare le possibili conseguenze di questa situazione di tensione: il nostro dispensario medico cercherà di garantire l’accesso anche ai medicinali che saranno difficili da reperire, o il cui prezzo potrebbe diventare proibitivo. Attraverso il dispensario e il Centro di emergenza continueremo a fornire assistenza medica e psicologica, nella speranza che l’escalation si fermi e che il pericolo di una guerra aperta non arrivi a concretizzarsi.