La stanza risuona di voci: arabo e inglese si mescolano nei sorrisi e nelle parole cordiali che si riservano alle presentazioni con quelle persone che si ha davvero voglia di conoscere.
Ci troviamo a Betlemme, nell’ufficio di Pro Terra Sancta dove le donne della città imparano a cucire e a ricamare grazie a un corso di formazione online tenuto da Maha, ragazza di Gaza rimasta bloccata in Egitto dopo lo scoppio della guerra. Maha si è reinventata così, trasformando la sua attività di artigiana in un corso erogabile digitalmente, capace così di annullare le distanze e le barriere della guerra.
Maha non è l’unica cittadina di Gaza costretta a un esilio non voluto: tra le donne che siedono in questa stanza ce ne sono tre che vengono da Gaza, e che ora non possono più farvi ritorno. Sul loro capo i veli colorati le avvolgono con pudore, incorniciano i volti segnati dal dolore e dalla forza necessaria a rimanere salde.
«Siamo arrivate a Betlemme prima dello scoppio della guerra,» racconta Najiya, «e ora non possiamo più tornare». Najiya ha ventiquattro anni e una figlia di un anno di nome Hana, affetta da gravi problemi cardiaci. È per Hana che Najiya è qui: «A Gaza non ci sono le strutture adatte a garantire a mia figlia le cure necessarie. Inizialmente siamo andate al Tel Hashomer Hospital di Tel Aviv, dove mia figlia si è sottoposta a un’operazione a cuore aperto, e dove le hanno impiantato una batteria cardiaca per aiutare il suo cuore a sopravvivere». Lo sguardo di Hana è limpido, il suo sorriso ha in sé l’innocenza di tutti i bambini mentre la madre la tiene tra le braccia.
«Anche mio figlio Omar è stato operato al cuore,» interviene Fawziyya, «perché è nato con solo metà cuore funzionante». Tutte e tre le donne hanno una storia in comune: un figlio malato, la necessità di curarlo, i viaggi da un ospedale all’altro, e poi l’impossibilità di tornare: «Siamo passate anche noi per il Tel Hashomer per curare l’infezione all’occhio di mia figlia Nour, ma non riuscivano a trovare le giuste medicine. Nour ha solo sei anni e mezzo», sospira Dima. «Siamo state trasferite poi ad Ashdod, e poi qui, a Betlemme, dove siamo costrette a rimanere».
«Se uscissimo da Betlemme per tornare nella nostra città, dovremmo accettare di non poter più lasciare Gaza, di non poter più tornare qui». Najiya, Fawziyya e Dima si guardano con un’intesa che solo la condivisione di un dolore comune può dare, una comprensione che prescinde dalla verbalizzazione. «Non possiamo permettercelo: i nostri figli hanno bisogno di cure, non possiamo rischiare di non tornare a Betlemme. Dobbiamo aspettare che ci diano i permessi» – «Il che significa aspettare che la guerra finisca».
Najiya e Dima vorrebbero tornare a Gaza: «Ho perso quasi tutto: la mia casa è andata distrutta, mio fratello è morto in questa guerra; però è lì casa mia, è quella la mia terra». Najiya rimane in silenzio, le sue parole rimangono sospese; poi Dima prende la parola: «Io tornerei a Gaza subito, anche se mi dessero il permesso mentre la guerra è ancora in corso, perché ho i miei figli lì». Fa una pausa, negli occhi ha lo strazio di una madre che sa di non poter fare altrimenti: «Ma non posso farlo: condannerei Nour ad una morte certa. È dura, molto dura».
Fawziyya tace, mentre le altre raccontano il loro desiderio di tornare: il suo sguardo è profondo e quasi ferisce, se si posa su di te. Poi ci spiega che «Io no, non tornerei indietro. Non ho più niente a Gaza: la mia casa è distrutta, mio marito è morto da dieci anni; e questa guerra mi ha portato via i anche miei figli. Ne avevo cinque: ne sono morti quattro, sotto le bombe e gli attacchi armati. Mi resta solo Omar».
Abbiamo dato dei nomi di fantasia a queste donne coraggiose, per tutelare la loro sicurezza; Fawziyya l’abbiamo chiamata come Fawziyya Al-Sindi, poetessa araba del Bahrein, i cui versi emanano la stessa dolorosa fermezza:
Per chi è l'azzurro di questo abito
che ha le vertigini come il fondo del mare
su quale ti abbandoni rapidamente?
È senza esitare
che indossi quel che assomiglia al sangue qualora lui dovesse
morire
non sai che si tratta di inchiostro sprecato?
[…]
Per chi, per chi combatti?
«Certo che mi manca Gaza! È casa mia. Perdendo Gaza ho perso la mia casa, non ho più alcun Paese, alcuna patria. Inizialmente sarei dovuta tornare, è stata la guerra a bloccare ogni strada. Adesso devo occuparmi solo della salute di Omar.»
Anche al piccolo Omar manca Gaza, ma «ha paura di tornarci». Quando le chiediamo che cosa lo spaventi, se siano le immagini che vede in televisione o le notizie che sente, Fawziyya sospira: «Non ha paura delle immagini che vede nelle notizie, ma di ciò che ha visto e conosciuto. Omar ha perso i suoi fratelli, in questa guerra: è questo che lo spaventa».
«Il bisogno più grande ora è la pace, per tutte le persone e per tutti i popoli; e, poi, la salute di Omar». È questo che chiede Fawziyya a Dio: «Ho paura di perdere Omar, è il mio ultimo figlio, tutto ciò che mi rimane. Io non temo per me,» sottolinea senza più cercare di trattenere le lacrime, «ma ho paura per Omar, per la sua malattia».
Dietro la donna ci sono due quadri, appoggiati sulla superficie di un mobile: sono dipinti direttamente su due tavole di legno, dai bordi irregolari. Rappresentano due volti di donne che ti guardano fisso: sono sguardi di accusa? O di richiesta? Forse desiderano essere viste come loro ti guardano, non essere ignorate come persone lontane a cui accadono eventi terribili che però, in fondo, riguardano sempre qualcun altro. Forse soffrono, come soffre Fawziyya: i suoi occhi sono pieni di dolore, il dolore di una donna che ha perso tutto. Tutto, tranne la fede.
Però i suoi occhi non accusano nessuno; forse sono le donne dipinte ad accusare noi e la nostra indifferenza, forse ci chiedono solo di stare ad ascoltarle, di non lasciar cadere nel vuoto le lacrime di una madre e le sue parole di fiducia nei confronti di un Dio che continua a farle sentire la sua stretta.
Le tre donne di Gaza, infatti, si aggrappano alla loro incrollabile fede, e in essa sembrano trovare un’isola di quiete: «Ciò che è scritto per te accade, e ciò che ti accade è scritto per te. Tutto fa la volontà di Dio», spiega Dima. «I nostri familiari che non ci sono più ora sono in Paradiso, e io prego sempre affinché lo siano». «Non so perché stia accadendo ciò che stiamo vivendo ora,» continua Najiya, «ma spero che un giorno sarà chiaro come tutto sia servito per una ragione: per la liberazione della Palestina».
«Vi ringraziamo tanto per questa attenzione che ci dedicate, per l’interesse verso di noi e la nostra storia: ci fa sentire viste, sostenute, non abbandonate». Fawziyya dà persino il suo consenso ad essere fotografata, perché «Raccontare la nostra storia significa, in qualche modo, farci giustizia, far sentire finalmente la nostra voce».
In particolare Dima si mostra grata per la possibilità di ricevere supporto psicologico per sé e per la sua bambina: «Adesso anche per le persone a Gaza la cosa più importante sarebbe avere accesso ad un aiuto psicologico: i genitori non sanno più prendersi cura dei loro figli, a causa dell’ansia di non riuscire a nutrirli e ad essere per loro un porto sicuro. Possiamo sopravvivere senza cibo, ma non senza il supporto e il sostegno di coloro che amiamo».
Accanto ai bisogni primari, quindi, per sé e per chi è rimasto a Gaza la vicinanza psicologica e affettiva e la fede rimangono i capisaldi per mantenere viva la speranza: «Prego per la serenità mentale e spirituale mia e di mia figlia», racconta Najiya, «non ho bisogno di altro. I miei bisogni si sono ridotti molto in questa situazione, non ho abbastanza soldi per pagare tutte le spese mediche o per assicurarmi una casa anche il mese che verrà. Prego per la pace e per le persone di Gaza, che Dio continui a star loro vicino, e prego che chi non c’è più si trovi in Paradiso, ora, accanto a Lui».