L’attesa del Natale tra Libano e Siria
E’ già buio quando le ruote dell’aereo toccano la pista d’atterraggio. La coda al controllo passaporti è stranamente molto breve. Poche decorazioni mi ricordano che anche qui si stanno preparando al Natale. Appena uscito però mi rendo conto di essere davanti a una situazione completamente nuova. “Vedi quelle case sulla collina? Sono tutte illuminate da generatori a gasolio”.
Benvenuti in Libano...
Quante volte avrò sentito questa frase durante i viaggi in Siria, tra le città distrutte dal conflitto, eppure questa volta l’effetto è diverso, perché Fadi non mi sta indicando la periferia di Damasco o alcuni di quartieri di Aleppo: siamo a Beirut. Una città già vista tante volte, sempre illuminata, viva e caotica, bloccata spesso e volentieri dal traffico. Oggi sono strade deserte quelle che attraversano quartieri spettrali e bui.
Dalla strada dell’aeroporto intravedo nella penombra i grattacieli che facevano da cornice alla Beirut del lusso e dello sfarzo: adesso sembrano solo statue di cemento disabitate. Bisogna stare attenti a girare in macchina: i semafori sono spenti per più di 20 ore al giorno, e di notte non si vede nulla.
Benvenuti in Libano. Agli angoli delle strade bambini di tre o quattro anni mi inseguono a piedi nudi per chiedermi qualche soldo. “Money! Money!”: probabilmente sono le prime parole che hanno imparato e che urlano a tutti, mentre il centro città si svuota e solo la luna illumina gli hotel di lusso davanti al mare. Da non crederci. Ed è solo la prima notte.
Vivere con 20 dollari al mese
La mattina dopo incontro il team di Pro Terra Sancta che in Libano porta avanti le attività di aiuto: quando iniziamo a parlare sono circa le 9 di mattina e su un'app del cellulare mi mostrano il cambio attuale: il dollaro vale circa 22.300 lire libanesi (un anno fa ne valeva circa 2000). “Stai attento a cosa succede ora”, mi dicono. Passano poche ore e il dollaro ne vale già 23.000. “E’ sempre peggio”.
La lira si svaluta ogni ora che passa, perde terreno, ormai non vale quasi nulla. Uno stipendio medio è di circa 20 dollari. La situazione è così drammatica che tanti insegnanti non vanno più a scuola perché con il loro stipendio non riescono nemmeno a pagarsi la benzina per pagarsi il tragitto scuola-lavoro.
Mentre ascolto i racconti di chi si è trovato a gestire una miseria mai vista prima, continuo a visitare le tante famiglie aiutate. Per le strade le luminarie installate per le feste sono spente, e se incontri qualcuno pochi secondi dopo ti allunga la mano per chiederti un aiuto.
Da Beirut a Damasco
Beirut è irriconoscibile, ed è ancora una tappa obbligata prima di raggiungere la Siria. Anche se gli aeroporti sono stati riaperti, non esistono ancora i voli internazionali e attraversare in macchina la valle della Bekah è l’unico modo per raggiungere Damasco, la seconda tappa in questo viaggio.
Nel paese degli Assad è ancora più difficile parlare di ripresa. Quanto è stato distrutto non è stato ricostruito. I palazzi diroccati sono ancora disabitati. Le periferie abbandonate. Lavorare è un sogno, come spesso lo diventa anche poter nutrirsi.
La guerra se n’è andata quasi del tutto, ma al suo posto ha lasciato fame e povertà. Non c’è vittoria tra le macerie. Solo vinti. E la situazione peggiora se ci spostiamo nei villaggi della provincia di Idlib, dove da anni sosteniamo la presenza francescana e la popolazione colpita dalla guerra.
Padre Louay e padre Hanna: evangelizzare sotto il regime jihadista
Lì vivono due frati che danno tutto per gli altri. Padre Louay vive nel villaggio di Jacoubieh, ancora sotto l’egida jihadista. Assieme a padre Hanna, non può uscire da quei territori prossimi alla Turchia e vive in una situazione che ricorda molto quella in cui vivevano i cristiani sotto il Califfato Islamico. Ma anche, e soprattutto qui, tra le persone più colpite dalla furia islamista, brilla ancora la speranza.
Qualche settimana fa un suo parrocchiano è stato accusato ingiustamente di blasfemia dal tribunale religioso islamico. Dopo un giudizio sommario, viene condannato a sette mesi di prigione e a cento frustate pubbliche. Una punizione che nelle sue condizioni di salute e di età (75 anni) non avrebbe mai potuto reggere.
Il frate prende coraggio e si rivolge direttamente ai giudici del tribunale: “Non riuscirebbe mai a sopportare tanto, accetto volentieri io la pena che avete deciso per lui”. Silenzio. I giudici si guardano attoniti per qualche momento. “Non ci è mai capitata una cosa simile, abuna”. Guardano padre Louay e prendono tempo: “dacci un po’ di tempo per pensarci”.
Il Salvatore nasce a Betlemme e rivive in Siria
Così si riuniscono a discutere di quella proposta così surreale, umanamente impossibile e mai sentita prima. Un uomo senza colpa che prende su di sé le “colpe” di un altro. Lo stupore di quel gesto è accompagnato anche da una certa commozione. Tanto che poi arriva questo verdetto finale: “il tuo cuore è davvero grande, abuna. Per questo motivo abbiamo deciso di liberare te e il tuo parrocchiano. Siete liberi”.
Quel cristiano poi è stato posto per dieci giorni agli arresti domiciliari, così che il tribunale religioso salvasse la faccia di fronte ai jihadisti della regione. Ma un miracolo era accaduto. Un uomo aveva offerto la sua vita per salvarne un’altra. Ricorda molto il miracolo di quel bambino, che nacque a Betlemme proprio per questo. Per salvare uno, mille, tutti. L’unica, vera, grande vittoria, che nessuno potrà mai rubare. Nemmeno in Siria.