Bussiamo alla porta del laboratorio di ceramica di Nisf Jubeil, il piccolo villaggio vicino all’antica città di Sebastia. Le ragazze del centro ci accolgono timidamente, chiedendo di avere il tempo di poter rimettere il velo sul capo. In un ambiente solo al femminile le donne musulmane non sono tenute a coprirsi i capelli. Lo spazio del corso è per loro un momento in cui sentirsi libere tra sole donne, uno spazio in cui confrontarsi, parlare e imparare.
“Ceramica per la vita”: questo è il titolo del seminario di 15 giorni organizzato dalle “veterane” del laboratorio per dieci giovani donne palestinesi desiderose di apprendere l’arte della fabbricazione della terracotta. Il corso è parte del è più ampio progetto promosso da Mosaic Centre, Pro Terra Sancta e Foundation Assistance Internationale (FAI) per la promozione del turismo nelle aree di Sebastia, Gerico e Betania.
Ruwaida Khalil, responsabile del corso e una delle quattro fondatrici del laboratorio, ci racconta come l’arte della ceramica le ha davvero cambiato la vita. Grazie a Pro Terra Sancta e Mosaic Centre Ruwaida ha trovato lavoro con il quale mantiene la sua famiglia. È riuscita a mettere a frutto un talento e farlo diventare una professione. Non sa se il futuro di queste giovani donne prevederà il lavoro della creta: “La maggior parte di loro sono studentesse appassionate di arte. Per loro è imparare un hobby, ma nella vita non si può mai sapere. Per me è stata l’occasione della vita”.
“Ceramica per la vita” significa anche questo. Imparare a produrre utensili, oggetti di vita quotidiana come si faceva un tempo, significa maneggiare la terra e i colori, ma significa anche nuove opportunità. “Io sono autodidatta, non ho mai avuto la possibilità di studiare arte – ci spiega Ruwaida – oggi dopo tanto tempo mi rende fiera poter insegnare a queste ragazze il mio mestiere”.
Le ragazze sono intente a lavorare l’argilla, ognuna di loro sta modellando un volto. “Tutte queste facce verranno disposte sulla parete della guest-house di Nisf Jubeil. L’installazione vuole rappresentare l’umanità in tutte le sue forme”, ci spiega Ruwaida.
Così sui tavoli si vedono i volti di Shaskepeare, di un pirata, il viso di un vecchio o di una donna come l’avrebbe dipinta Picasso. Le ragazze si sono fatte guidare dalla fantasia e dal gusto personale. Amal sta incidendo nell’argilla i baffi di Charlie Chaplin, Tahani con le mani sta modellando gli occhiali di Mahmoud Darwsish: “Lui è il più celebre poeta palestinese. La sua poesia è di grande ispirazione per me”.
La scelta stessa di rappresentare dei volti è originale. Nell’Islam è vietato (haram) rappresentare la figura umana, ma Ruweida e le altre ragazze ci spiegano che in questo caso è permesso (halal): “Possiamo dipingere o raffigurare il volto di personaggi, ma non la figura intera”.
Renan studia lingue a Gerusalemme, parla arabo, inglese, ebraico e sta imparando il turco. Una ragazza molto in gamba ci aiuta a comunicare con le sue colleghe. L’arte per lei è una passione: “In questo periodo di pausa dagli studi, avevo bisogno di mettere le mie energie in qualcos’altro. Questo corso è ciò di cui avevo bisogno”. Le ragazze concordano con lei: “Durante il lockdown per il coronavirus sentivamo di doverci mettere alla prova per imparare qualcosa di nuovo”.
Con le mani sporche di argilla queste dieci donne sembrano distaccarsi da tutto: dalla paura dei contagi, dalle preoccupazioni della casa, dalle difficoltà della vita quotidiana, sicuramente non facile per una donna palestinese. Fuori dal laboratorio c’è il mondo e la vita vera, ma per qualche ora, riunite insieme nel piccolo villaggio di Nisf Jubeil, ci sono solo loro, la creta e i colori.
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